Pellegrinaggio della memoria, la testimonianza all’Università di Trieste di Andra Bucci

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9 aprile 2025
16:16

Pellegrinaggio della memoria, la testimonianza all’Università di Trieste di Andra Bucci

Due ore con studenti e studentesse delle scuole toscane. L’importanza di raccontare
Pellegrinaggio della memoria, la testimonianza all’Università di Trieste di Andra Bucci
Un momento dell'incontro nell'aula magna. Sotto, il gruppo toscano davanti all'ingresso dell'Università

Partiamo dal fondo e riavvolgiamo poi il nastro. Quella lunga fila di ragazze e ragazzi per parlare con Andra, una delle due sorelline Bucci scampate a quattro e sei anni nel 1944 al campo di sterminio di Bikenau, le loro domande, gli abbracci, l’attenzione mai persa ie i telefonini a fare incetta di parole n due ore di racconto nell’aula magna dell’Università del capoluogo friulano che nel 2020 ha insignito le due sopravvissute della laurea honoris causa, le incursioni anche tra passato e presente aprendo i tanti cassetti della storia – quella con la “S” maiuscola e quella con la “s” minuscola – per guardare al loro insieme, valgono sicuramente una speranza per il futuro. Il finale triestino, prima di quello di domani (10 aprile) a Firenze al Memoriale italiano delle deportazioni un tempo ad Auschwitz, racconta molto dei quattro giorni di pellegrinaggio della memoria con un’ottantina di studentesse e studenti delle scuole superiori toscane, i loro professori e professoresse e le associazioni di chi fu perguitato, oltre all’importanza del viaggio voluto dalla Regione nell'ambito di Giovanisì, il programma regionale per l’autonomia delle nuove generazioni. 

Andra Bucci, assieme alla sorella Tatiana, partecipa dal 2004 alle iniziative sulla memoria organizzate dalla Toscana.  I ricordi tornano ogni volta ad aprire una ferita dolorosa. “Ma sono ricordi necessari  - confessa – e alla fine anche liberatori”. Racconti generosi che si arricchiscono ogni volta di particolari, spunti e riflessioni diverse. 

Le chiedono del giorno della liberazione del campo, del tempo nell’inferno di Auschwitz-Bikenau. Lei racconta come un fiume in piena: a volte con apparente e invidiabile leggerezza, a volte con la gola che si stringe e le lacrime che annebbiano gli occhi, sorretta ogni volta dall’applauso di giovani e grandi.  Racconta della nonna nata in Ucraina, in un paesino che non esiste più, fuggita per altre persecuzioni. Racconta, intervistata dallo storico Luca Bravi, di come minoranze hanno convissuto e potrebbero ancora convivere in armonia e dell’esodo giuliano-dalmato. Racconta del biglietto fatto scivolare dalla mamma dal treno in una stazione italiana, per avvertire chi fosse tornato a casa della deportazione, e che fu raccolto e portato dai carabinieri a Fiume, dove viveva la famiglia durante la guerra.  

Descrive come un bambino, pur nell’inferno di un campo di sterminio, riusciva a giocare: con le palle di neve. Uno scudo anche quello per sopravvivere, come i tanti bambini che alla televisione, si sofferma, si vede che continuano oggi a giocare in paesi e città martoriate dalla guerra. Ricorda il freddo, pungente, e loro vestite di niente, la mamma che nonostante tutto continuava a curare la propria igiene. Ricorda il fango, il ghiaccio e la terra durissima, le razzie naziste di oggetti di valore e di ricordi tra i bagagli dei deportati, le scarpe senza lacci che scivolavano via e i piedi rattrappiti per tenerle. Racconta l’arresto e il ruolo dei fascisti italiani, il passaggio dalla Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio con forno crematorio in Italia. Racconta la selezione iniziale all’arrivo a Birkenau, la fine tragica del cuginetto Sergio,  il lungo viaggio tra Praga e l’Inghilterra prima di tornare a casa, alla fine del 1946. Racconta la fortuna loro e la sfortuna di tanti altri bambini, i pochi sopravvissuti, che non hanno più potuto riabbracciare mamma e babbo.   

Nell’aula magna dell’università le domandano se si ricorda quando ha capito la gravità di quanto stavo succedendo. “No, ero troppo piccola” risponde. Ma questo non vuol dire disconoscere l’importanza della memoria dei bambini: una sottolineatura ripetuta più volte in questi giorni. Le chiedono se si è mai chiesta perché è successo e se ha trovato una risposta. “Ci ho riflettuto solo molti anni dopo, da grande – confessa – ma devo essere sincera: non lo capisco neppure oggi. E’ successo perché sono ebrea? E’ successo e succede ad altri perché musulmani? Ma perché, mi chiedo. Certo c’è chi è più magro e più grasso, abbiamo pelli ed occhi di colori diversi, un altro credo a volte. Ma alla fine siamo tutti uguali”.  Insomma, per dirla con il musicista Miles Davis, non esistono note sbagliate: una frase che campeggia, non a caso, sopra un pianoforte all’ingresso dell’università, che in quanto scuola deve essere luogo di confronto, dove la diversità non fa paura od è giudicata un crimine. Ancor di più in una terra di confine come quella triestina.  

“Non ho un perché per quello che è successo in passato – prosegue Andra - e non ho un perché neppure per le tante crudeltà che oggi si ripetono, sul motivo ad esempio per cui la comunità internazionale per alcuni si mobilita e per altri no”. Si sofferma. Prende fiato. “Quando scoppiò la guerra in Bosnia – dice - , l’Europa si fece in quattro portando donne e bambini in Italia: fui felice, ma mi scattò una punta di invidia. Perchè loro sì e per me e tanti altri come me no? Perchè loro sì ed oggi no?”. “L’umanità ha la memoria così corta  - si interroga - e non riesce a ricordare che le guerre producono solo morte e povertà ? A che è servita la fatica di ricordare con dolore e testimoniare?” 

“Ma è giusto farlo -  si risponde da sè -. Raccontare ai giovani è importante, perché lo racconteranno a casa e i genitori a volte conoscono la storia meno dei ragazzi. Certo ci sarà sempre qualcuno nel mondo per cui la storia non è stata utile o non ne farà uso e che continuerà a fare i propri interessi, anche personali. Ma ci sarà anche chi continuerà a lottare e protestare. Dunque perché smettere? Occorre continuare, perché tra i tanti che ascoltano, leggono e studiano qualcuno impara. E sono queste persone in grado di salvarci”.  

La mente torna al 2017, quando Andra salì sul treno della memoria toscano, con la sorella, assieme allora anche alle figlie e al nipote. “Volevo tornare da tempo in quei luoghi con loro” dice. La condivisione dei racconti unisce le famiglie e unisce le comunità. Alla memoria deve poi accompagnarsi lo studio..  “A quattro anni – ricorda Andra – la mia prima figlia, che è nata nel 1964, mi chiese la ragione del tatuaggio con il numero 76483 che avevo sul braccio e che non ho mai voluto cancellare: perché poterlo esibire a suo modo è una vittoria e perché, anche se lo cancellassi, rimarrebbe dentro la mia testa”.  ”Mia figlia dunque voleva capire, le ho spiegato e più tardi ha approfondito e saziato la sua fame di conoscenza anche sui libri di storia. E’ giusto raccontare – sottolinea Andra -. E’ stato mio marito ad insegnarmi ad aprirmi agli altri. Quando mia figlia è diventata mamma si è immedesimata in mia madre nell’inferno del lager, separata dalla figlia piccola”. “Ed ho raccontato di Auschwitz e Birkenau e delle persecuzioni patite  - conclude - anche a mio nipote Joshua”. 

La lezione è chiara. Memoria e conoscenza devono andare a braccetto e sono due ingredienti fondamentali per costruire un antidoto all’indifferenza che del male può essere complice. Un aiuto anche alla costruzione della pace.