23 gennaio 2017
19:33

Il pericolo di generalizzare

La discriminazione nasce con la generalizzazione. E così che i Rom e Sinti sono diventati settanta anni fa  'zingari', un termine coniato allora come dispregiativo. E come zingari, parola sopravvissuta ai tempi, sono finiti nei lager. 

Nel vagone ristorante del treno toscano diretto ad Auschwitz si parla di stereotipi, forti soprattutto quando le persone non si incontrano.  "Invece bisogna conoscersi meglio. Di più " dice Ernesto Grandini, sinto che da trenta anni vive a Prato, giostraio per venticinque a giro per tutta la Toscana, il padre partigiano che ha combattuto contro le SS e la Wermacht sulla linea gotica. Per questo, per conoscersi meglio, da qualche tempo Ernesto, che il presidente di un'associazione di sinti, invita a casa studenti delle scuole della città. Per vincere il pregiudizio.

Seduti a terra o appiattiti sulle pareti a vetri del treno, stipati come sardine, ci sono una cinquantina di ragazzi. Ascoltano. Prendono appunti. Fanno domande. Chiedono dove vivono e che lavoro fanno i giovani. Vogliono capire.

Lo stereotipo qualcosa duro a morire. Pensiamo ai Rom come giostrai o come donne con le gonne colorate e i capelli raccolti a treccia. Nella famiglia allargata di Ernesto ci sono operai, un regista e insegnante di ballo, uno stilista che espone a Pitti. I nipoti vanno al liceo e non esistono più le scuole speciali degli anni Settanta.

Li consideriamo stranieri. E invece la maggior parte dei 180 mila che vivono in Italia sono italiani. Li etichettiamo come ladri o, se va bene, come mendicanti. Pensiamo ai rom e ai sinti come nomadi. "Ma in Serbia noi abitavano in una casa, come tutti. Da secoli" racconta Ersan Bejzaku, fuggito dall'ex Yugoslavia dopo la guerra, italiano da cinque anni e attore da quattordici. "In un campo nomadi dice sono finito quando sono arrivato in Italia, a Firenze". Per colpa di uno stereotipo, che viaggia spesso assieme al pregiudizio.

E' il caso di Mustafà, rom di trent'anni e da ventisei in Italia, che fa l'autista turistico, musulmano. Alla fine è stato accolto. "Ma è stato difficile racconta Venivo guardato con sospetto". La sua famiglia originaria della Macedonia. E il non poter dire quello che uno è, perchè malvisto, è davvero una pena indicibile: una pena senza colpa perchè frutto di un giudizio appunto generalizzato.  "Nessuno  - dice - dovrebbe mai negare le proprie origini".

Negli anni Trenta Rom e Sinti vivevano in Germania, raccontano durante il penultimo degli incontri sul treno: "ariani imbastarditi" iniziano a dire i tedeschi. La 'scienza' li giudicò geneticamente asociali e la prima misura fu la sterilizzazione di massa. Poi con le leggi razziali del 1935 cessarono di essere tedeschi. Furono utilizzati come manodopera in campo di sosta, che diventarono poi campi di concentramento. Dal 1942, appurata la loro inferiorità razziale da scienziati che anche dopo la  guerra rimasero al loro posto, furono tutti deportati ad Auschwitz e Birkenau. Per poi, in una sola notte, essere sterminati in tremila, affogati nel silenzio per molti anni  a venire. 

Cosa accade non lo ricorderanno loro ma alcuni ebrei, come Pietro Terracina. Al processo di Norimberga non si parlerà di porrajmos. Qualcuno si lascerà scappare cose del tipo: se l'erano cercata. Pregiudizi, ancora pregiudizi. I nazisti li sterminarono per il loro istinto al nomadismo, ma ancora oggi li consideriamo nomadi e si pensa che la soluzione sia quella dei campi nomadi.

Finito l'incontro, tocca ai deportati politici e ai militari che dopo l'8 settembre dissero no alla Republica di Salò. Le memorie di chi finito nei lager si intrecciano e intanto, in uno scompartimento distante poche carrozze, alcuni ragazzi intonano  "Bella Ciao", il canto dei partigiani.  Partigiani come il padre di Ernesto appunto, il sinto di Prato.

Leggi anche:
Porrajmos, un libro
Luca Bravi racconta lo sterminio di Rom e Sinti
Taddeus, il custode dei nomi del "campo degli zingari"
La Rom che si finse per settanta anni ebrea