
“Non è facile tornare indietro con la memoria, passare e venire qui, entrare negli stanzoni.
E' un grande dolore – confessa Andra Bucci -: per chi soprattutto non c’è più”. Gli occhi della bambina sopravvissuta ad Auschwitz cercano quelli delle studentesse e degli studenti e con le parole disegnano il dramma delle deportazione e dello sterminio. Quello degli ebrei e dei perseguitati dal nazismo, ma anche quello dei migranti della rotta dei Balcani oggi al Silos di Trieste, dove la sorella Tatiana pochi mesi fa ha confessato di aver rivisto Birkenau: il dramma anche degli slavi deportati quando gli Italiani nel 1941 invasero la provincia di Lubiana in Slovenia.
“In fondo – prosegue Andra - io ho avuto una vita dopo, con alti e bassi come è normale che sia, però ce l'ho avuta. Tutti gli altri che sono passati di qua, tantissimi e che non ci sono più, una vita non l’hanno avuta“.
Il racconto della memoria del viaggio con le scuole toscane riparte dall’interno della Risiera di San Sabba a Trieste, campo di detenzione e transito (ma anche di sterminio) alla periferia della città: oggi museo, San Sabba fu l’unico campo in Italia con un forno crematorio ed il pelligrinaggio toscano della memoria, dopo quattro ore e quasi quattrocento chilometri da Reggio Emilia a Trieste da poco dopo l’alba a mezzogiorno, riprende con la testimonianza– sofferta ma in fondo liberatoria – di Andra Bucci, che a quattro anni con la sorella Tatiana di sei e quasi tutta la famiglia (eccetto il babbo e uno zio, prigionieri di guerra fuori Italia) fu deportata nel 1944 da Fiume ad Auschwitz Birkenau, passando per il piccolo paese di Susak e poi proprio dal campo della Risiera.
Tre pullman, poco meno di centocinquanta persone, ottantuno studentesse e studenti delle scuole secondarie di secondo grado, venticinque professori. E poi ancora gli istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea, le associazioni dei deportati, degli internati militari, dei familiari martiri, le comunità ebraiche e di chi nel ventennio fascista fu perseguitato perché scomodo o diverso. E’ folta la delegazione toscana e la testimonianza di Andra, che pochi mesi fa era a Firenze con la sorella per il giorno della memoria, è tutta per loro.
Tutto era iniziato a San Sabba, in fondo. “Non riesco ancora ad entrare in quella cella, una cella stretta e con un tavolaccio di legno troppo piccolo, dove eravamo stipati in otto della mia famiglia” confessa Andra, dietro di lei i muri di mattoni con le finestre da cui probabilmente si affacciò la mattina in cui fu caricata sul camion verso la stazione dei treni e il convoglio diretto in Polonia. “Mia sorella – prosegue - c’è riuscita ad entrare qualche anno fa, durante la realizzazione di una docufilm, ma io ancora non riesco”.
Probabilmente la loro cella non è tra quelle oggi rimaste e visitabili. Era forse al primo piano del magazzino di tre piani dove, a guerra finita, i solai sono stati distrutti. Ma poco importa. Il campo, più piccolo di allora, inglobato negli anni dal quartiere attorno, con le grandi lapidi nel piazzale dove ancora ci sono le ceneri di chi vi morì, è quello. E il grande senso di oppressione rimane.
“Non ricordo l'arrivo qui – racconta Andra - . Ma ricordo una mattina in cui guardavo nel cortile, appoggiata a una balaustra e vedevo un grande movimento e un sacco di persone che salivano sul camion. Fu il giorno che ci portarono al treno. E’ un ricordo forte. Il resto, la celletta, il mangiare, noi otto tutti assieme, è un po’ una fotografia color seppia, un po’ sbiadita”.
Era la fine di marzo 1944, forse attorno all’ora di ena, quando la famiglia Bucci fu arrestata a Fiume da tedeschi e collaborazionisti italiani: il fatto di essere figlie di un matrimonio misto – mamma ebrea e babbo cattolico - non le salvo dalla deportazione. Probabilmente rimasero solo alcuni di giorni nella Risiera: loro, la nonna, la mamma, due zie, uno zio e il cuginetto Sergio De Simone, anche lui appena sei anni. Giusto il tempo per gli adulti di essere interrogati - i tedeschi cercavano il resto della famiglia fuggita, in provincia di Vicenza – e poi il viaggio verso l’inferno dei lager.
“Ma non è vero – precisa Andra – che i bambini non hanno memoria. La mia memoria si apre con l’arrivo a Birkenau. Non ricordo la quotidianità, non so dire quello che è successo prima e quello che è successo dopo, però ricordo tantissimo. Ricordo l’arrivo alle Judenrampe fuori dal campo, ricordo la selezione iniziale appena scese, era il 4 aprile 1944, dove la nonna Rosa e la zia Sofia vengono allineate a destra, fatte salire su un camion e scompaiono per sempre”.
“Ricordo del viaggio, in un angolo del vagone, una specie di secchio – prosegue -, forse un bidone, per i nostri bisogni e le donne che si paravano con delle coperte alzate attorno a mo’ di tenda da altre donne. Ricordo all’arrivo a Birkenau le urla, la violenza, i cani che abbaiano e ringhiano”.
Andra e Tatiana erano vestite uguali, con lo stesso cappottino cucito dalla mamma sarta. Le dividevano due anni ma erano quasi due gocce d’acqua. “Siamo sopravvissute alla selezione iniziale perché Mengele, probabilmente presente – racconta Andra – ci scambiò per gemelle e ci reclutò per i suoi esperimenti”. Una fortuna, perché di 776 bambine e bambini italiani deportati ad Auschwitz e Birkenau ne sono tornati solo venticinque.
“Potrei raccontare per ore le cose che ricordo, pur essendo una bambina – dice Andra - . Ma ogni volta mi emozio. E’ difficile tornare qui e le cose più difficili da raccontare le lascio sempre a mia sorella”.
I ricordi fanno male. “Non sto bene mentre parlo – ripete - , non sto bene neache dopo: al ritorno da una visita come questa o ad Auschwitz ci vuole almeno una settimana perché torni quella che ero prima”. Ma tirare fuori i ricordi è in fondo anche una liberazione. “Per me parlare - dice - è come stendersi sul lettino dello psicologo. E' una liberazione che alla fine mi fa bene”. Anche se non è sempre stato così. C’è voluto molto tempo, coraggio e determinazione prima che il racconto di quell’orrore potesse essere condiviso, anche in famiglia. E dalla fine della seconda guerra monidale, quando la famiglia si trasferì da Fiume a Trieste, ne sono passati quasi sessanta prima di rimettere piede alla Risiera di San Sabba.
Ma la bambina sopravvissuta ad Auschwitz, testimone della memoria, è instancabile. E alle ragazze e ragazzi, alle professoresse e ai professori dice: “Domani, quando all’aula magna dell’Università di Trieste quando ci rincontreremo, fatemi tutte le domande che volete”.
La storia di San Sabba
La Risiera di San Sabba a Trieste era uno stabilimento per la pilatura del riso. Entrato in crisi tra le due guerre, fu affittato all'esercito italiano come magazzino e poi, dal 1943, ai tedeschi, che lo utilizzarono come campo di detenzione e di transito per gli ebrei ma anche di sterminio di oppositori politici, partigiani, parenti di resistenti e ostaggi.
Oggi è un museo e una ciminiera stilizzata che ricorda le scie dei binari ricorda come i soli due modi per uscire dalla risiera erano o la deportazione o il fumo del camino: San Sabba fu infatti l’unico campo in Italia dotato di un forno crematorio.
Vi morirono probabilmente tra le tre e le cinquemila persone: la maggior parte uccisi con il gas di scarico dei camion, come già si faceva in Polonia, di notte e coprendo le grida con la musica ad alto volume, altri con colpi alla nuca. Tremila ebrei in quegli anni vivevano a Trieste: ottocento furono deportati e solo quindici di loro sopravvissero.
Dopo il 1943 il campo fu guidato dai tedeschi, ma a San Sabba con le SS lavoravano gli italiani: complici di razzie, ricatti e uccisioni.
Non si volle però troppo indagare. Quando gli angloamericani arrivarono a maggio del 1945 a Trieste, le priorità in pochi mesi erano già cambiate: l'urgenza era fermare i comunisti titini e tenere la situazione tranquilla. Una strategia di quieto vivere, senza alzare troppo coperchi.
Un processo per i crimini commessi alla Risiera di San Sabba si svolse solo nel 1976, presso la Corte d’Assiste di Trieste. Du ufficiali tedeschi furono accusati di omicidi plurimi. Uno dei due fu condannato all’ergastolo (l’altro morì prima della sentenza), ma non scontò mai la pena in quanto le autorità tedesche non erano tenute a consegnarlo a quelle italiane in base a un accordo bilaterale del 1942.